Verso il #25N: il grido delle donne e quelle donne che mancano alla tv italiana

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Quest’anno, il film più bello visto alla Mostra del Cinema di Venezia parlava di una donna che cercava giustizia per la figlia stuprata e ammazzata; tutti gli uomini intorno a lei, almeno all’inizio, non sembrano capaci di aiutarla, quindi lei decide di agire da sola. C’è solo un problema per lo spettatore: Mildred, questo il nome del personaggio interpretato dalla gigantesca Frances McDormand, è antipatica. È una donna distrutta dal dolore e indurita dalla grave perdita, certo, ma dai flashback si capisce che è sempre stata una stronza odiosa e asociale, che non risparmia frecciatine e insulti nemmeno ai figli adolescenti e che non si sforza nemmeno un po’ di attirare le simpatie degli altri, nemmeno quando la drammatica situazione in cui si trova glielo permetterebbe.

Un film come Tre manifesti a Ebbing, Missouri sarebbe impossibile da realizzare in Italia. Non solo perché probabilmente non abbiamo un regista e sceneggiatore bravo come Martin McDonagh e degli attori del calibro della McDormand o di Sam Rockwell, ma soprattutto perché i personaggi femminili che vediamo al cinema e in tv non sono quasi mai esseri umani con personalità pienamente sviluppate, quanto piuttosto figure abbozzate che rientrano in archetipi ben precisi (la madre, l’amante, la vittima o la carnefice). E che, il più delle volte, vengono viste esclusivamente attraverso lo sguardo maschile.

In questi giorni, in vista della Giornata internazionale contro la violenza sulle donne, la Rai ha aggiunto nel proprio palinsesto una programmazione speciale di una delle sue fiction di punta, Il Commissario Montalbano. Si tratta di quattro episodi già trasmessi che hanno come tema centrale donne uccise da uomini, e che va sotto il nome de “il grido delle donne”. Al di là del godere di una delle migliori produzioni della nostra tv di Stato, però, trovo profondamente sbagliato che sia stata scelta proprio questa fiction per invitare alla riflessione sul tema della violenza maschile. Perché, innanzitutto, in Montalbano le protagoniste non sono mai le donne (gli unici personaggi femminili ricorrenti sono la compagna del protagonista, spesso e volentieri solo una voce al telefono, l’amica Ingrid, ovviamente sempre sexy e disponibile, e la donna delle pulizie il cui unico compito, oltre a pulire, è di cucinare fantastici manicaretti); e poi perché, a parte essere inevitabilmente marginali, in questi episodi vengono presentate come vittime prive di qualsiasi agency.

Se i tristi casi mediatici dell’ultimo mese ci hanno insegnato qualcosa, è che l’italiano fa fatica a riconoscere le vittime se queste ultime non rientrano in un’esatta concezione: la Vittima™ dev’essere moralmente irreprensibile, non deve avere fatto nulla di sbagliato nella propria vita che possa far sorgere dubbi sul suo attuale status di Vittima™, e soprattutto l’evento che l’ha resa Vittima™ non deve avere implicazioni che la facciano uscire da quel ruolo.

Una narrazione che non fa altro che riproporre un singolo modello di donna, e quindi in questo caso di vittima, non fa altro che rafforzare queste semplificazioni. Non che Montalbano non ci abbia fatto vedere anche storie moralmente ambigue e ricche di sfumature (si ricordi il recente Covo di vipere, ad esempio), ma proprio gli episodi proposti sono tutti infelicemente incentrati sulla morte violenta di donne: donne che parlano pochissimo o che si vedono in scena già da morte, il quale destino è segnato fin dall’inizio. Le altre donne che si vedono negli episodi sono interessi amorosi o espedienti utili alla trama, mai veri personaggi. Una pessima scelta, che non porta ad alcun tipo di riflessione e in qualche modo annulla le migliaia di storie di violenza, e i tanti tipi diversi di violenza che non sono per forza il femminicidio, e finisce per annullare la volontà stessa delle donne.

Col femminicidio c’entra poco, ma riproporre la bella fiction Di padre in figlia forse sarebbe stato più utile a far capire alle donne vittime di violenza che il loro destino non è segnato dalla prevaricazione maschile, che sono capaci di fare altro e di raggiungere qualsiasi obbiettivo nella vita; vedendo qualcosa in cui sono assolute protagoniste, potrebbero essere ispirate a diventare, finalmente, protagoniste della propria vita e non più solo vittime.

E magari, se si inizia a cambiare il paradigma narrativo e si lascia spazio allo sguardo femminile, in futuro potremmo avere una Mildred anche in un film o una fiction italiana. Una madre addolorata che a un certo punto stacca un’unghia al proprio dentista, e non se ne pente affatto.

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Il mio Sì, il giorno dopo

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Negli ultimi mesi mi sono confrontata con persone che credevano di stare per entrare in una dittatura, che condividevano articoli in difesa della democrazia fra una notizia falsa su Putin e un elogio a Fidel Castro, che avrebbero votato solamente per mandare a casa un governo “non eletto dal popolo”, dimostrando di non conoscere la Costituzione che così ardentemente credevano di difendere; mi sono confrontata anche con persone che hanno votato in maniera ponderata e informata, che mettevano in luce i difetti di una riforma e di un referendum dalle indubbie connotazioni politiche; mi sono confrontata con molti indecisi che, nel caos della propaganda, non riuscivano a capire i pro e i contro dei due schieramenti, ma che si dimostravano (alcuni per la prima volta) genuinamente interessati ad avere un ruolo attivo nelle scelte sul futuro del proprio Paese. Forse non mi sono esposta abbastanza, soprattutto sui social network dove i confronti civili sono un’utopia, un po’ perché nemmeno io ero convinta al 100% della riforma, un po’ perché – chiamatela deformazione professionale – ero critica sulle strategie di comunicazione adottate dal fronte del sì. Adesso, però, mi pento di non essermi messa maggiormente in gioco, non per la presunzione di aver potuto fare una differenza, ma perché leggo lo stesso pentimento nelle parole e negli atteggiamenti di quei sostenitori del sì che, forse per evitare gli attacchi continui a cui vengono sottoposti i filo-renziani e chiunque non pensi male dell’ormai defunto governo, sono rimasti in silenzio. Continue reading

Solitudine e sale da tè

Se c’è una cosa che non riesco a trovare in Sicilia è una vera sala da tè. All’estero mi basta andare in uno Starbucks qualsiasi per essere sicura di poter passare un paio d’orette indisturbata a sorseggiare una bevanda calda mentre leggo o scrivo. Anche in altri parti d’Italia ci si sta abituando a questo modello di locali tipicamente nord-europei, ma in Sicilia ancora no.

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Vista da uno Starbucks a Birmingham, 2012.

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#Venezia73 a caldo

20 film visti, 11 km a piedi percorsi in media al giorno, 24 vaporetti presi, innumerevoli emozioni (e birre). È questo il bilancio della 73ma Mostra del Cinema di Venezia, la mia terza. Probabilmente la più bella finora, quella che ho vissuto più intensamente e che mi ha regalato molte soddisfazioni.

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La cosa più bella dell’arrivare in aereo

Si è partiti col botto con il film di apertura, La La Land (potete leggere la recensione su Atom Heart Magazine), uno di quelli che attendevo con più ansia e paura che potesse deludermi (un musical che ricalca quelli della golden age hollywoodiana e il secondo film di un regista che avrebbe potuto montarsi la testa dopo il successo di Whiplash; il rischio ciofeca era altissimo). I miei dubbi si sono presto dipanati mentre, sullo schermo della sala Darsena, scorrevano le immagini di questo quasi-capolavoro (ho bisogno di almeno un’altra visione per esserne convinta). Delusione che si è invece palesata con La luce sugli oceani (recensione), mèlo di Derek Cianfrance con Michael Fassbender e Alicia Vikander. L’unica gioia è stata vedere il Fassy da vicino per la prima volta, fargli autografare il blu-ray di uno dei miei film preferiti con lui (Frank) e fotografarlo mentre lo autografa. Purtroppo a causa della ressa per lui non sono riuscita a fermare la Vikander, attrice che adoro e che avevo già incontrato l’anno scorso per The Danish Girl, ma per lo meno siamo riusciti a urlarle il nostro amore mentre arrivava per il red carpet (qui il video).

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Michael Fassbender mentre mi benedice

La fiducia nella selezione della Mostra è tornata con i due film successivi in concorso, Arrival Frantz, entrambi amati alla follia come i rispettivi protagonisti. Se per il primo ero già abbastanza sicura della sua buona riuscita, il secondo è stato una vera e propria folgorazione, e non vedo l’ora esca nelle nostre sale il 22 settembre per rivederlo e rivedere il mio futuro marito Pierre Niney.

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Frantz ha *anche* una sceneggiatura

Le sorprese sono continuate con i film fuori concorso e delle altre selezioni, ad esempio con King of the Belgians, esilarante mockumentary presentato nella sezione Orizzonti, e One More Time With Feeling, toccante documentario sulla registrazione dell’ultimo album di Nick Cave, con il miglior uso del 3D che abbia mai visto finora. Un altro documentario che ho apprezzato molto è stato David Lynch: The Art Life, realizzato da tre giovani registi (una delle quali abbiamo scoperto essere la montatrice di uno dei film tedeschi più belli degli ultimi anni, Victoria). Altra sorpresa The Young Pope, la miniserie di Paolo Sorrentino: i primi due episodi, con mio sommo stupore, mi sono piaciuti parecchio, soprattutto perché le “sorrentinate” sono contenute (almeno finora).

Per quanto riguarda i classici restaurati, ho visto per la prima volta Oci Ciornie di Nikita Mikhalkov e l’ho amato (anche se, vedendo la versione cinematografica tornando a casa, ho apprezzato di più quella nonostante il meraviglioso restauro), e ho rivisto Manhattan di Woody Allen con il restauratore presente in sala ed è stata davvero una bella esperienza.

Il concorso è continuato con la visione di The Bad Batch di Ana Lily Amirpour e Voyage of Time di Terrence Malick. Per entrambi ho poco da dire, se non che il primo è a dir poco imbarazzante nella sua affannosa ricerca della trasgressione e dell’unicità che mancano quasi del tutto, e che il secondo è la riproposizione in chiave documentaristica dei temi e delle forme che Malick ci propone incessantemente da Tree of Life in poi. Entrambi o li ami o li odi.

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Terrence Malick a San Marco?

Per quanto riguarda i film italiani, posso dire di aver saltato a pie’ pari (più o meno involontariamente) i tre in concorso, mentre ho apprezzato molto l’opera prima di Marco Danieli, La ragazza del mondo. Interessante il documentario Assalto al cielo di Francesco Munzi.

La seconda settimana della Mostra trascorre alla velocità della luce, lasciandomi in testa un ammasso confuso di film, incontri, chiacchierate, caffè e gelati. Altri film da segnalare, se mai avranno una distribuzione italiana, sono Boys in the Trees, bellissimo esordio dell’australiano Nicholas Verso, un Donnie Darko anni ’90 che ha il potenziale di diventare un cult, e Malaria dell’iraniano Parviz Shahbazi. Da evitare Planetarium di Rebecca Zlotowski e l’imbarazzante anime Gantz:0.

Il “mio” concorso si è concluso con Paradise di Andrej Končalovskij, film per il quale nutrivo grandissime aspettative ma che mi ha in parte deluso per il contrasto tra il virtuosismo tecnico e la banalità della sceneggiatura. Probabilmente avrò bisogno di un’altra visione per rivalutarlo, dato che probabilmente non è il tipo di film da vedere alle otto di mattina con appena quattro ore di sonno.

Fra gli incontri che porterò nel cuore, a parte quelli con i compagni d’avventura da tre anni e le nuove amicizie, ci sono sicuramente quello con Nicolas Winding Refn, Andrew Garfield (che, al contrario di due anni fa, si è dimostrato una persona dolcissima), Aaron Taylor-Johnson, Pierre Niney, il leggendario John Landis e il grande Timothy Spall.

 

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Piccioni seduti su un tavolino dell’Excelsior che riflettono sullo spritz

 

 

Cultura geek e discriminazione: il “fuoco amico” di The Big Bang Theory

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Se siete appassionati di fumetti, videogiochi, opere fantasy o di fantascienza, insomma, di qualunque cosa da nerd, negli ultimi nove anni avrete sicuramente dovuto fare i conti con la prima sit-com con dei nerd protagonisti a diventare mainstreamThe Big Bang Theory.

Inizialmente accolta con buon entusiasmo dalla comunità, col passare delle stagioni la serie ha perso sempre più fan nerd quanto più guadagnasse ascolti fra il pubblico generalista, divenendo un vero e proprio fenomeno (tormentoni – Bazinga! – compresi) e sdoganando parte di quella che viene definita cultura geek, nel bene e – soprattutto – nel male.

Mentre in patria TBBT non ha più le simpatie di molti appassionati per motivi che illusterò più avanti, in Italia sembra ancora essere la serie nerd per eccellenza: il merchandising invade le ormai numerose fiere dedicate al fumetto, e una delle domande che mi è stata posta più spesso negli ultimi anni quando accennavo alle mie passioni era “Ti piacciono queste cose e non segui The Big Bang Theory?” (solo recentemente sostituita daTi piacciono queste cose e non segui Game of Thrones?”).

In verità, la serie l’ho seguita, anzi, ho divorato le prime tre stagioni in pochi pomeriggi. L’ho abbandonata per quel “calo fisiologico” di qualità che colpisce un po’ tutte le serie con tanti episodi per stagione, e in particolare le sit-com: gli schemi narrativi diventano ripetitivi, i personaggi si cristallizzano e l’unico sviluppo sta nelle relazioni sentimentali, che presto diventano il fulcro della storia. In più, TBBT si è rivelata una serie nemica dei nerd, che non si rivolge a loro ma ad un pubblico generalista (e gli ascolti stratosferici lo confermano) e che, di conseguenza, usa riferimenti e citazioni non per gratificare il segmento di pubblico rappresentato ma come punchline per quello generalista. Difatti, non si ride col nerd, ma si ride del nerd.

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Due parole su #BatmanvSuperman, anche se non l’ho ancora visto

Come ho voluto sottolineare nel titolo, non ho visto il film e quindi non posso dare un giudizio qualitativo, e la mia visione della faccenda è indubbiamente incompleta, ma mi sembra che contro Batman v Superman ci sia un accanimento eccessivo da parte della stampa specializzata. No, non credo alla ridicola teoria del complotto secondo la quale i critici si siano coalizzati per affondare la DC cinematografica del dopo-Nolan. I critici amano essere in disaccordo, credetemi, e il fatto di aver dato un consenso negativo mette a disagio molti di loro, però che alcune reazioni siano a dir poco esagerate è sotto gli occhi di tutti: da chi remava contro fin dal primo teaser che mostrava “troppo poco” alle (giuste) polemiche sugli altri trailer che mostravano anche troppo, dallo scetticismo su Affleck a quello su Gadot, abbiamo visto e letto di tutto in questi anni di attesa. La maggior parte sono critiche legittime (e sarei ipocrita a dire il contrario perché molte di queste le ho espresse pure io), eppure titoli come quello di Bad TasteBox-Office USA: Batman v Superman non batte Harry Potter nei definitivi del weekend – sembrano davvero in malafede.

I numeri non sono opinabili e che il film sia un successo al botteghino è un dato di fatto, eppure si riesce comunque a riportare la notizia in modo negativo, forse per alimentare le polemiche, forse perché si è preso gusto a trattare questo film come punchball. Magari lo merita, ma – concedetemi il benaltrismo – per quanto brutto possa essere, solo nell’ultimo anni ci sono stati altri blockbuster discutibili che hanno ricevuto un trattamento ben più morbido dalla critica.

Jurassic World avrebbe meritato più critiche negative, riuscendo a sbagliare dov’era difficile farlo e accontentando difatti solo i fan più accaniti e quelli più giovani, o il noiosissimo sequel di Pitch Perfect, con il quale la critica è stata fin troppo buona. Anche Avengers: Age of Ultron ha deluso parecchio le aspettative di molti, ma i Marvel Studios, ormai forti dei loro successi, hanno incassato il colpo e fatto passare le critiche in secondo piano tramite le loro capacità comunicative sempre vincenti (se dell’affaire Whedon non si ricorda più nessuno, un motivo ci sarà).

Ecco, forse il problema si può ancora una volta ridurre a quella che, al di là della sua qualità effettiva, rimarrà la nota dolente del processo che ha accompagnato il film dalla sua nascita alla sua distribuzione: le pessime scelte di marketing. Anche dopo la sua uscita, la Warner continua a dare in pasto alla stampa dichiarazioni di Snyder che non fanno altro che alimentare le ragioni dei detrattori e deludere coloro che il film l’hanno amato, e che adesso magari vorrebbero solo assimilare ciò che hanno visto, creando le loro teorie e non essere ulteriormente bombardati da dettagli specifici su quello che non hanno notato o quello che li aspetta in futuro.

È vero che la cultura del “tutto e subito” potrebbe sembrare quella più diffusa e quindi quella da sfruttare per massimizzare i profitti, ma la crescente attenzione da parte del pubblico per gli spoiler – e il recentissimo esempio di Star Wars – dovrebbe far riflettere sul tipo di strategia che si voglia adottare per promuovere la propria opera.

Mo Basta

A chi scambia i diritti per opinioni

A chi dice di difendersi dal pensiero unico imponendo il proprio

Al benaltrista

A chi crede che possa esistere libertà economica senza libertà individuale, e viceversa

A chi si crede detentore di Verità Assolute

A chi si definisce cristiano, e poi invoca la pena di morte o la legge del taglione

A chi cerca sempre un nemico

A chi crede che la coerenza sia un valore, e cambiare idea un peccato mortale

A me viene da dire solo

Mo basta

Pecché si tropp strunz pe’ parlà

Ridatemi le drag queen sui carri

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È partita in questi giorni la massiccia campagna di comunicazione di Onda Pride, il movimento che raccoglie e coordina le manifestazioni per i diritti LGBTQIA che quest’estate percorreranno tutta Italia. Una volta si chiamavano semplicemente “gay pride”, e ad accompagnarli c’era sempre una scia di polemiche legate al modo di manifestare, più una parata di carnevale che una marcia per i diritti.

Forse è per questo che, già da qualche anno a questa parte, il Pride sta cambiando volto, politicizzandosi sempre più e cercando così di essere più serio e inclusivo. Quest’anno diventa addirittura #Human, cancellando quasi del tutto i riferimenti palesi al mondo gay. È una buona mossa? A mio avviso no, e cercherò di spiegare perché.

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Westeros, abbiamo un problema

Premessa: non seguo Game of Thrones. Ci ho provato, ma ho mollato al pilot. Tutto quello che so lo apprendo quotidianamente dai social network, e credetemi, voi fan siete piuttosto invasivi quando si tratta di commentare l’ultimo episodio, gli spoiler, o le varie teorie. Credo di saperne abbastanza da permettermi di scrivere qualcosa sull’argomento che, comunque, ha poco a che fare con la serie e molto con parte del suo pubblico.

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